Coni e bastoncelli

Fig. 1: Andrea Mantegna, particolare de “Il Cristo Morto” (1475-1478)
La prima teoria ampiamente accettata sul meccanismo della visione è quella di Thomas Young e Hermann von Helmholtz, anche se ancora oggi dopo un secolo e mezzo, ci sono alcune questioni che non possono essere spiegate con il solo ausilio di essa.
Il nostro occhio è formato dalla retina (la parola “retina” deriva da “rete”, riferito all’intrico di vasi sanguigni), la quale possiede fisicamente due tipi di fotorecettori: i coni che permettono la visione “fotopica-diurna” (dal greco phos = luce) e i bastoncelli che invece regolano la visione scotopica-notturna (dal greco skotos = oscurità).
Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che i bastoncelli (concentrati lungo il perimetro esterno della retina) sono estremamente più sensibili dei coni (che si trovano invece nel centro), ma al contrario di questi riescono a trasmettere solo deboli informazioni sui colori: è per questo che gli oggetti notturni ne appaiono privi.
In condizioni di luce tali da indurre una visione “scotopica-notturna” (e quindi sostenuta dai bastoncelli), qualsiasi radiazione luminosa genera infatti la medesima sensazione di colore: una tinta indefinibile tra il grigio, il blu e il verde. Essa è appunto la “tinta della notte”, che alcuni pittori spesso sfruttano per generare sensazioni di angoscia, o morte (come il Mantegna nel Cristo Morto, Fig. 1).
Una curiosità: gli appassionati di astronomia sfruttano la posizione esterna dei bastoncelli attraverso la tecnica detta della visione distolta: guardano cioè il cielo notturno con la coda dell’occhio (non frontalmente) riuscendo in questo modo a percepire oggetti siderali di debolissima luminosità.
L’ipotesi di Young sulla generazione del colore
I bastoncelli, potendo riconoscere la quantità di luce ma non la sua qualità (ovvero la lunghezza d’onda) ci dimostrano però che essa di per sé non è colorata. Apprezziamo infatti il colore solo quando la quantità di luce diventa sufficiente: di giorno, quando i coni entrano in funzione. Ma perché solo i coni permettono di distinguere i colori?
Va precisato che la prerogativa dei colori è un fatto quasi unicamente umano e di pochi animali, come gli uccelli, i rettili e i pesci. Non lo è ad esempio per la stragrande maggioranza dei mammiferi, dove la colorazione è rudimentale o addirittura assente (è noto che se il torero usasse una “muleta” grigia, per il toro non farebbe alcuna differenza: siamo noi che la preferiamo rossa, in quanto tale colore rievoca quello del sangue). L’uomo non è nemmeno l’animale dotato di più sensibilità alla luce: il serpente a sonagli vede senza difficoltà la radiazione infrarossa (che scaturisce dalla temperatura corporea) riuscendo a scorgere le prede anche di notte.
Young fu il primo, partendo dalla dimostrazione che la luce di per sé non può essere colorata, ad ipotizzare che la generazione del colore fosse un processo psico-fisico originatosi tra la connessione occhio-cervello: partendo dalla teoria di Newton secondo cui ad ogni lunghezza d’onda corrisponde un colore diverso, e considerando che per ottenere tutta la gamma dei colori ne servono principalmente tre detti primari fondamentali (il rosso, il verde e il blu), ipotizzò che nel nostro occhio esistessero tre tipi di coni, ovvero un corrispondente per ognuno dei tre colori fondamentali (teoria in seguito confermata dalla scienza).
Helmoltz e la tripletta di segnali
Young probabilmente andò oltre con gli studi, ma come medico a quei tempi aveva di sicuro paura di perdere clienti a causa delle sue “manie scientifiche”, cosicché non ha lasciato scritto quasi nulla. A continuare la ricerca è stato il tedesco Helmholtz: costui perfezionò il lavoro di Young descrivendo con cura il funzionamento del binomio occhio-cervello. Stabilì infatti che in ogni istante l’occhio invii al cervello una “tripletta di segnali” (una per ogni fotorecettore) grazie alla quale quest’ultimo riesce fornirci il colore risultante, cioè quello derivato dalla mescolanza dei tre (esattamente l’inverso di ciò che accade con il suono: tanti suoni diversi rimangono distinguibili nell’orecchio, generando quella che viene chiamata “cacofonia”).
La teoria non può però spiegare tutto
Rimangono però validi anche i precedenti esperimenti di Otto Von Guericke (1602 -1686) e quelli più recenti di Edwin Land (1909 – 1991), che sembrano mettere in crisi il modello perfetto di Young-Helmholtz sulla tripletta dei colori: se tale teoria fosse infatti corretta al 100%, un foglio bianco sotto una luce fioca e un foglio grigio sotto una luce brillante (entrambe luci naturali) dovrebbero apparire identici, quando in realtà siamo sempre in grado di distinguere quale dei due è il foglio bianco e quale quello grigio. E’ anche piuttosto facile per un giallo mal illuminato sembrare marrone, ma un oggetto marrone per quanto fortemente illuminato non apparirà mai giallo. Ciò significa che il nostro sistema visivo è in realtà molto più complesso di quello che si è sempre pensato: è così evoluto da permetterci di percepire i colori nel modo più stabile possibile e sotto vari tipi di interferenze.
Partendo dall’antico esperimento di Guericke sulle ombre colorate e grazie alle proprie ricerche sperimentali, Land (inventore anche dei filtri Polaroid) giunse a concludere che il nostro cervello è influenzato solo in parte dalla effettiva quantità luminosa che interessa ciascuno dei tre tipi di fotorecettori. Esso (al contrario del nostro occhio) dà molto più peso alla luminosità della superficie sotto osservazione e al contrasto tra zone diverse: è in grado dunque di tener conto anche di proprietà che sono inerenti agli oggetti, indipendentemente dal tipo e dal grado di illuminazione.
La teoria di Land spiega anche bene perché una zona di colore vista isolatamente può generare in noi una percezione diversa dal caso in cui faccia parte di un contesto più vario: nei suoi esperimenti geniali Land è riuscito infatti a riprodurre tutti i colori dello spettro senza fare ricorso alla terna di fondamentali, bensì partendo da un solo colore e mescolandolo additivamente con luce acromatica (cioè non colorata). Il colore percepito può addirittura in certi casi arrivare ad essere completamente indipendente dalla natura delle radiazioni che ci giungono, tanto che da un’immagine in bianco e nero in determinate circostanze possono emergere dei colori!
Insomma, i meccanismi che intervengono nel sistema nervoso sono così complessi che all’oggi risultano ancora in larga parte incompresi.
Bibliografia utile: Andrea Frova, “Luce, colore e visione“, Ed. BUR (Biblioteca Univ. Rizzoli).